La lunga «eredità» del Covid-19 sulla salute dei polmoni
Il Covid-19 può lasciare un segno sui polmoni anche a distanza di mesi dalla guarigione.
Qual è lo stato di salute dei pazienti che hanno messo alle spalle il Covid-19? La malattia nuova e le dimensioni dell’emergenza hanno portato gli operatori sanitari a concentrarsi anzitutto sulle possibilità di guarigione di ogni paziente. Ma oggi che il numero degli italiani che hanno superato l’infezione da Sars-CoV-2 sfiora quota 150mila, occorre tenere in considerazione anche questi aspetti. Covid-19 potrebbe comportare conseguenze che vanno oltre la risoluzione della polmonite. «I tempi di osservazione ristretti non permettono di avere dati certi, ma il danno polmonare determinato dalla malattia potrebbe non scomparire alla risoluzione della polmonite», avverte Luca Richeldi, direttore del dipartimento di pneumologia del Policlinico Gemelli di Roma e membro del comitato tecnico scientifico della Protezione Civile.
IL DANNO POLMONARE DA COVID-19 E’ REVERSIBILE?
Evidenze al momento preliminari, che sembrano però confermare l’ipotesi che l’assistenza di cui abbisognano questi pazienti debba andare oltre la fase acuta della malattia. «L’infezione polmonare da coronavirus può lasciare un’eredità cronica sulla funzionalità respiratoria – aggiunge lo specialista, alla guida della Società Italiana di Pneumologia -. A un adulto, in media, potrebbero servire da 6 a 12 mesi per un recupero funzionale, che non è detto però che sia sempre completo. La causa è da ricercare nella fibrosi polmonare, che porta comportare l’irrigidimento del tessuto colpito dall’infezione. Con la conseguente riduzione nella funzionalità degli scambi gassosi». Una condizione che potrebbe richiedere il ricorso all’ossigenoterapia anche a domicilio. O, come scenario più avveniristico, il ricorso alle cellule staminali mesenchimali e alle sostanze da esse prodotte (citochine, fattori di crescita, chemochine) che, in uno studio (in vitro) pubblicato sulla rivista Cells nel 2018, si sono rivelate in grado di combinare l’azione antinfiammatoria e antifibrotica a quella rigenerativa. Da qui l’ipotesi di una possibile soluzione ai danni determinati da Covid-19.